Il “Made in Italy”, a caccia di artigiani

Luigi MeiCna Nazionale

Nel 2009 rimasti vuoti 23mila posti di lavoro qualificati. Mancano sarti, calzolai, mobilieri, aziende in difficoltà. Silvestrini: tecnologia e innovazione sono parte integrante della professione artigiana, i giovani devono fare da ponte tra tradizione e progresso. Come una malattia grave: non si cura con un rimedio miracoloso. E chi lo promette quasi sempre è un ciarlatano. Però si possono cercare antidoti e medicine. La crisi in Italia è profonda e porta con sé ripercussioni che stanno producendo un problema occupazionale: l’Istat ha appena accertato che nel 2009 il paese ha perso 380 mila posti e che il tasso di disoccupazione medio è salito al 7,8%. E allora bisogna scovare rimedi, vie alternative percorribili per attutire (non certo risolvere) l’emergenza occupazionale. Un’indicazione importante arriva dal mondo artigiano: nel 2009, seppure nel mezzo della crisi economica, ci sono state figure professionali difficili da reperire sul mercato. Lo scorso anno le aziende artigiane hanno faticato a trovare 23.470 professionisti, su tutto il territorio nazionale, che rispondessero alle caratteristiche richieste. A scarseggiare sono gli artigiani specializzati, le figure tecniche e d’alto profilo capaci di fornire valore aggiunto alle aziende. Non sarà un caso se la difficoltà a selezionare personale qualificato (e non stagionale) nell’artigianato è superiore alla media di tutte le altre imprese. Da un anno ci si ripete che il made in Italy salverà la nostra economia ma un manifatturiero che sappia rilanciarsi anche sui mercati esteri ha bisogno di innovazione e qualità delle risorse umane. «Lo ripetiamo da tempo — afferma Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato —, il nostro manifatturiero ha bisogno di un ricambio generazionale per garantirsi un futuro ancora competitivo. Per questo abbiamo accolto con favore l’introduzione dell’apprendistato all’interno del percorso formativo per l’istruzione superiore. Proprio l’apprendistato è per noi una forma contrattuale che, facilitando la formazione in azienda, risulta di grande importanza in un mercato del lavoro come quello italiano che ha sempre difficoltà ad armonizzare domanda e offerta». Per il momento però i giovani rimangono ancora diffidenti nei confronti del mondo artigiano, non si spiegherebbe altrimenti la difficoltà di reperire giovani leve tra le figure più specializzate. «Si tratta certamente di un problema culturale – spiega Sergio Silvestrini, segretario generale della CNA: per diverse generazioni hanno insegnato ai loro figli che era meglio studiare e cercare un mestiere di concetto. Così anche oggi i giovani preferiscono dire che lavorano in un cali center piuttosto che in una bottega artigiana. Probabilmente è anche colpa nostra che non abbiamo saputo comunicare quanto sia cambiato il nostro mondo: oggi la tecnologia e l’innovazione sono parte integrante della professione artigiana. Ecco perché abbiamo bisogno di giovani che sappiano fare da ponte tra la tradizione e il progresso». A spaventare forse sono anche i tempi di inserimento: apprendere un mestiere e specializzarsi richiede tempo e qualcuno teme ancora che «fare bottega» sia poco remunerativo. «Di sicuro fare bottega significa avere un contratto retribuito -precisa Fumagalli -, e non so quanti siano i praticanti degli studi professionali a ricevere lo stesso trattamento. E i dati dicono anche che il 70% dei giovani che svolgono l’apprendistato presso gli artigiani vengono poi assunti a tempo indeterminato». Calzaturiero, tessile e arredo sono solo alcuni tra i settori che hanno contribuito alla fama del made in Italy nel mondo, ma oggi per reggere la concorrenza dei mercati emergenti bisogna spostare sempre più su l’asticella della qualità e per farlo servono figure professionali che altre scuole di manifatturiero non possono permettersi. «Già all’inizio della crisi – ricorda Diego Rossetti, dell’omonima azienda calzaturiera, erano tanti i consulenti a consigliare di industrializzare il più possibile il ciclo produttivo per ridurre gli sprechi. Ma industrializzare troppo significa anche spersonalizzare il prodotto, quindi indebolirlo. Noi non lo abbiamo fatto perché crediamo ancora molto alla forza della produzione artigianale. Per questo nella nostra azienda un modellista è una risorsa davvero preziosa. Di stilisti che disegnano le scarpe ne trovi quanti ne vuoi ma i tecnici che trasformano un modello in un prototipo sono preziosi come l’oro. Sono figure anche ben retribuite e quelle che di sicuro non perdono mai il lavoro, anche durante una crisi profonda come questa». Nel panorama manifatturiero c’è anche chi ha deciso di fare da solo: è il caso della Kiton, l’azienda napoletana d’alta sartoria, che qualche anno fa ha scelto di allestire una propria scuola per sarti. «In questi anni ne abbiamo formati cento – spiega Antonio De Matteis -: 8o li abbiamo assunti noi e 20 sono andati alla concorrenza. Ma non conta dove lavorino adesso, l’importante è aver dimostrato che il Progetto era valido e aver salvato una scuola di grandi tradizioni. Dieci anni fa era quasi impossibile trovare giovani che potessero tramandare la nostra scuola partenopea. Oggi i nostri organici si sono riempiti di ragazzi». Qualcosa di simile succede anche nel comparto del mobile, nelle aziende che hanno resistito alla tentazione della lavorazione totalmente industriale, quelle che hanno mantenuto passaggi artigianali e che si servono di specialisti in via d’estinzione. «Noi facciamo lavorare un indotto composto da circa 600 artigiani terzisti – conferma Michela Barona, amministratore unico della veronese Le Fablier – . Ma nelle botteghe, attorno ai vecchi maestri, vedo solo extracomunitari. Nessun problema, per carità, ma loro lo interpretano solo come un lavoro e non come una professione. C’è un turnover molto alto, in tanti si spostano di area geografica, altri preferiscono cambiare mestiere. Quasi nessuno pensa di tramandare un’arte antica. Forse non siamo bravi a spiegar loro che quella potrebbe essere la via per cambiare il loro destino in Italia. Ma del resto questo è un concetto che stentiamo a far capire anche ai nostri giovani disoccupati». Che magari continuano a far la fila per un posto al call center.

FONTE: Corriere della Sera 26.03.10  

Condividi